Paternò

07.10.2010 22:01

Come il primo testo pubblicato su questa pagina in italiano, è questo racconto di un'esperienza ormai famosa, che è nato con un enorme aiuto da parte del mio caro amico Saro Vecchio.

 

 

Il patrimonio dei padri e il patrimonio dei nonni. Il mondo degli uomini.

Come descrivere e spiegare tutti le sensazioni e le esperienze che ci assediavano in quel pomeriggio d 'agosto, quando giravamo nei pressi di Paternò.

Le rovine, le case distrutte, le agricole, le fabbriche; i cani, i gatti e gli uccelli neri che  si aggiravano nel paesaggio. In un recinto vedo un cavallo legato. Potrebbe sembrare un pony ma è un normale  cavallo, semplicemente fermatosi ad un prematuro stadio di crescita; atrofizzato. Uno storpio. E storpio sembrava tutto attorno a noi. Come maledetto e dimenticato da Dio. Come un moncone innestato nel corpo dell'isola e lì dimenticato, come dimenticata è la sua antica funzione; ammesso che fosse mai esistita. I campi? Le fattorie? I granai? Sembrava che il tempo avesse ribaltato la loro origine per farne il contrario dell'originale. Una versione malsana.  Quello che prima magari generava abbondanza e nutrimento ora emanava solo la paura e uno strano senso di malessere. Come attorno a corpi in putrefazione l'odore di morte aleggiava nell'aria.

 

Il potere. Il potere ha corrotto tutto ciò che  emergeva davanti ai nostri occhi. Il potere che è crollato sotto il suo peso e di cui adesso solo malvagie rovine si intravedevano, trascinando nel suo decadimento tutto quello che c'era nella sue vicinanze, come un buco nero che inghiotte le stelle.

Ci fermiamo ad una fabbrica abbandonata. Osservandola scopriamo che ci troviamo di fronte ad un antico mulino. Esplorandolo attraversiamo cataste di rifiuti. Vogliamo scattare delle foto, congelare in immagini tutto ciò; ma è come se non ne fossimo capaci. Le immagini di quello che ci attornia ingombrano le nostre menti, ma le nostre macchine fotografiche non sono in grado di immortalare tutto ciò. E' come fotografare il nulla. Siamo imprigionati in questo posto. Entriamo stando attenti ad ogni passo. Un paio di passi mossi  spaventano uno stormo di piccioni. Per un attimo il cielo si nasconde dietro le loro ali. Il tempo si è già preso il tetto. Lo stesso vale per molte porzioni del pavimento.

Incontriamo un gatto. E' grigio e non sembra avere paura. Il suo sguardo curioso si posa su di noi come su strani esseri invasori del suo territorio. Si blocca per un attimo voltando lo sguardo verso di noi, poi se ne va per i fatti suoi con noncuranza. Attorno non c'è niente da vedere ma siamo esterrefatti. Usciamo da uno dei buchi nel muro e arriviamo a qualcosa che, una volta, poteva essere un distributore di benzina come qualcosa di completamente diverso. Per un po' girovaghiamo un po' smarriti ma curiosi  per la struttura. L'attenzione dei nostri obbiettivi è attirata da un granaio su cui si inerpica una impalcatura. Scattiamo qualche foto.

Ad un certo punto con la coda dell'occhio intravedo qualcosa di penzolante nella brezza serale, sopra la mia testa: un passerotto. Un passerotto, impiccato con un filo sottile. Sto fissando questa materializzazione, che dondola morta ad almeno quattro metri sopra il terreno e in cui sembra essere racchiuso il senso più profondo della parola “assurdo”. Paura, paura di qualcosa che mi circonda, di qualcosa di insondabile ma di incredibilmente presente, qualcosa di incomprensibile. Il passerotto è come lo zen del male. Come la battuta con una mano sola. Il crollo di un albero che non ha sentito nessuno ma che è lì, a simboleggiare qualcosa che ci sfugge. 

Per qualche minuto rimaniamo immobili. Ci scambiamo uno sguardo. Poi i nostri occhi tornano nuovamente sul passerotto. Nuovamente i nostri occhi tornano ad incrociarsi, tra l'apprensione e lo sbigottimento. Ad un tratto qualcosa dentro di noi si spezza e senza che nessuno di noi due abbia proferito parola i nostri passi iniziano a dirigersi veloci verso la macchina. Via da questo posto! Via! Via!

Torniamo con una deviazione verso la città ma neanche là troviamo l'agognata tranquillità. Forse perché le nostre menti sono ancora turbate dalle immagini di poco prima, oppure no, ma gli sguardi della gente sembrano ostili. Ho bisogno di andare in bagno ma questa sensazione di ostilità m'impedisce persino di mettere la mano fuori dal finestrino. Mi sento nuda. Incrociamo un vigile e ho l'impressione di dover  denunciare qualcosa. Ma chi o cosa? Chi accusare del fatto che abbiamo paura di scendere dalla macchina?  Eppure vorrei gridare a qualcuno quello che ho visto, che c'è qualcosa che non va. Ma cosa? Sebbene non ci sia successo niente, sebbene nessuno ci abbia fatto del male abbiamo freddo nonostante fuori ci siano trentacinque gradi all'ombra.

Ad un certo punto un'indicazione stradale: Catania. La seguiamo; non vogliamo far altro che andar via da questo posto. La strada ci porta nuovamente in aperta campagna, tra pittoreschi paesaggi su cui la bellezza dell'Etna che si erge alta all'orizzonte. Ma ormai tutto ci pare corrotto. Anche lì è come se presenze si nascondessero guardinghe a custodire qualcosa che non abbiamo alcuna voglia di scoprire.

Chiedo perché andiamo tanto veloce, ma la risposta la conosco tanto bene quanto il mio compagno. Intorno a noi ci sono frutteti e uliveti ma ci vediamo solo cimiteri. Ai bordi della strada pascola una mandria di mucche. Lasciandoci alle spalle Paternò scherziamo su come raccomanderemo questo posto ai turisti che incontreremo.  Il sorriso torna sui nostri visi,  ma nella mente ancora quelle immagini e la cosapevolezza  questa piaga, questa ulcera sull-isola che amiamo non può guarirla solo il tempo.

L'uomo intrappolato nel potere ne deve uscire. Mollare le briglie e allentare l'imboccatura, lasciare andare il mondo dove vuole e dall' uomino diventare di nuovo l'uomo e uscire dal cappio che stringeva il collo del passerotto. Quel passerotto che probabilmente resterà scolpito nelle nostre menti.

 

Addio Paternò.